LA VOCE DEGLI ATTIVISTI: INTERVISTA A MAYA ISSA, STUDENTESSA PALESTINESE

Maya Issa è un’attivista palestinese e studentessa di Scienze politiche a Roma. Fa parte del “Movimento studenti Palestinesi in Italia” e fin da piccola si interessa alla questione palestinese. La si può trovare su Instagram con l’username @bentfalastinn_ ed è attiva anche su facebook. La redazione cultura, il giorno 11 gennaio, ha avuto modo di intervistarla tramite un incontro online,  in cui si è dimostrata molto disponibile a rispondere alle nostre domande su politica estera, social media ed attivismo giovanile. 

Buonasera Maya, abbiamo avuto modo di conoscerti attraverso le interviste e su diversi social, sei molto giovane ma hai già molta esperienza di militanza politica. Cosa ti ha portato a essere attivista?”

“Ho sempre sentito la natura da attivista dentro di me fin dalle scuole elementari. A casa i miei genitori seguivano la tv araba Al Jazeera e ho sempre sentito parlare di guerra in Palestina. Così sin da piccola chiedevo a Babbo Natale di portare pace a Gaza. Crescendo ho assunto sempre più consapevolezza fino ad arrivare al liceo, in cui durante la giornata della memoria mi sono rifiutata di alzarmi e fare un minuto di silenzio per le vittime della Shoah, poichè credevo assurdo come un popolo che ha vissuto già un tale genocidio continuasse a commetterlo sui palestinesi e ad ignorarlo. Grazie al mio gesto sono riuscita a portare nella mia scuola il giorno dedicato al ricordo delle vittime della nakba, l’esodo palestinese del 1948: una piccola vittoria che mi ha aperto le porte all’attivismo. Finite le superiori, mi sono iscritta alla facoltà di scienze politiche relazioni internazionali alla Sapienza e ho iniziato a manifestare per mostrare agli occhi di tutti un popolo decimato e sofferente, il mio.”

Secondo te, che sfide devono affrontare i giovani, che decidono di fare attivismo? Come è cambiata la tua vita dal 7 ottobre?

“Fare attivismo comporta anche molti rischi, tra cui quello di imbattersi nella violenza. Infatti la sfida più difficile risiede nel fatto che “non si può stare simpatici a tutti”. E’ normale quotidianità interfacciarsi con persone che hanno un pensiero divergente dal nostro. Quando si parla di attivismo però, il confronto può sfociare in vera e propria violenza, anche a causa dell’utilizzo di un linguaggio aggressivo e di parole molto forti, che possono urtare la sensibilità dell’individuo. Per cui se si vuole fare politica o attivismo è necessario un carattere forte, ogni ostacolo può essere superato se si crede realmente nella causa per cui ci si batte e bisogna non mollare la presa, custodendo il proprio credo. Ho iniziato a manifestare da sola, e ad oggi sono circondata da altre 5.000 persone che sostengono le mie cause. Nonostante ciò, dal 7 ottobre 2023, dopo l’ attacco di Hamas a Israele, la mia vita è cambiata completamente. Durante la manifestazione per la giornata contro la violenza sulle donne del 25 Novembre 2023, a Roma, mi è stata strappata la bandiera palestinese, sono stata accusata di essere una terrorista che non riconosce le violenze sessuali fatte da Hamas sulle donne israeliane e sono stata picchiata. Ed è stato in quel momento che le lacrime e i lividi lasciavano spazio alla delusione che mi gridava che il mio stesso paese non mi apparteneva.”

Come si possono far interessare i giovani alla politica?

“Credo che uno dei modi più efficaci per far interessare i giovani alla politica è sicuramente quello dei social. Infatti in un’era digitalizzata come la nostra e con alle spalle una pandemia mondiale, in cui si è rimasti chiusi in casa per un lungo periodo, è facile immaginare come le persone, in particolare i giovani, si sono avvicinati ai social più di quanto già  non lo fossero, ed è quindi inevitabile che  tra le centinaia di video visti ogni giorno, ci siano anche quelli riguardanti le vicende politiche. 

Inoltre penso che sia molto importante affrontare materie come diritto ed educazione civica nelle scuole con la massima serietà possibile; molto spesso queste materie vengono infatti sottovalutate da noi studenti, senza pensare che potrebbero rivelarsi un valido strumento per capire se la strada che vogliamo intraprendere sia una facoltà come  giurisprudenza o scienze politiche, università che al giorno d’oggi sono frequentate da davvero pochi giovani però spinti da una forte passione. Io infatti, ad esempio, quando ho terminato il liceo ho deciso di studiare odontoiatria, ma poi spinta dalle mie forti radici e dopo una lunga riflessione, ho capito che la strada che avrei voluto intraprendere era inerente alle scienze politiche e alle relazioni internazionali, a cui infatti sono attualmente iscritta.”

Quali pensi siano i rischi nella diffusione sui social di contenuti che parlano di guerre e conflitti? Quanto pensi essi abbiano il potere di influenzare la popolazione?

“La comunicazione sui social, nonostante permetta di raggiungere un gran numero di persone, viene alle volte ostacolata con lo shadowban ed altri mezzi di censura parziale. Meta ed Israele hanno una forte influenza sui contenuti online, tanto che scrivere la parola “Palestina” in una mia storia su Instagram fa scendere la media delle visualizzazioni dalle solite 1200 a circa la metà, tra le 500 e le 600. Tuttavia ci sono modi per aggirare questi meccanismi: tra le tattiche che gli attivisti pro-Palestina usano per attirare lo shadowban c’è, ad esempio, lo scrivere i nomi sostituendo le lettere con simboli (Palest!na, iSRa*l*). 

Però alla fine sembrerebbe che, nonostante questi ostacoli, la guerra mediatica la stia vincendo la Palestina. Accounts come @eye.on.palestine, che continuano a pubblicare ininterrottamente anche se qualche post viene rimosso, riescono a far arrivare i propri contenuti ad un largo numero di persone, rendendo pubbliche le atrocità inflitte al popolo palestinese.”

Quali sono i lati positivi di fare informazione sui social? E quali sono invece le difficoltà di interagire in un contesto televisivo?

“Sicuramente è più facile fare un post che scrivere un articolo, inoltre avere molti followers ed essere molto attivi sui social è un’arma efficace, ci sono comunque i lati negativi come appunto lo shadowban. Un esempio è la pagina @karem_from_haifa, gestita da un attivista di Firenze: sebbene le sue storie a volte vengano segnalate, comunque aprendo il suo profilo sono visibili molti suoi contenuti. Per oscurarlo completamente servirebbero circa 50k segnalazioni, evento estremamente improbabile. 

Per quanto riguarda la televisione, recentemente sono stata invitata a Piazza Pulita ma ho deciso di rifiutare, perchè con me sarebbero stati presenti quattro esponenti pro-Israele in studio ed un collegamento live da Tel-Aviv. Avevo l’impressione di essere stata invitata più come capro espiatorio che come elemento costruttivo all’interno di un dialogo. Avrei trovato giusto come minimo avere un collegamento da Gaza, in modo da rendere il dibattito più equo. Durante queste trasmissioni si tende ad alzare spesso la voce e si crea un ambiente difficile da gestire da un punto di vista psicologico. In queste situazioni è necessario essere particolarmente consapevoli di ciò che si dice e saper elaborare in modo veloce ed efficace, perché è facile essere accusati di antisemitismo. Chi lavora in questo ambito ha anni di esperienza alle spalle e attraverso una domanda mirata a cui l’interlocutore non riesce a rispondere di getto, riesce a mettere in discussione agli occhi del pubblico tutte le argomentazioni portate in precedenza, anche se corrette.”

Cosa pensi riguardo al silenzio e alla neutralità nei confronti della Palestina di cui spesso viene accusato il mondo occidentale? 

“Sono molte persone che pensano che il conflitto abbia avuto luogo solo a causa di un profondo astio causato da ragioni religiose, quindi incomprensioni tra l’Islam e l’ebraismo…La verità è che si tratta di un conflitto politico, economico e geopolitico.

Dopo aver chiarito questo, posso dire che la colpa è stata della comunità internazionale, che è stata assente durante gli ultimi 75 anni, e non ha mai veramente cercato di risolvere questa questione, non l’ha mai presa seriamente, e soprattutto, non ha mai costretto Israele ad adempiere ai propri obblighi e a rispettare le risoluzioni delle Nazioni Unite. 

I governi occidentali non hanno mai voluto risolvere questa questione, come se fosse stato un problema che poteva essere rimandato. 

Questo problema è stato rimandato fino allo scorso 7 ottobre.

Perciò la Palestina non ha più fiducia nel mondo occidentale, nei governi occidentali, nelle chiese occidentali. La neutralità, il silenzio, l’astenersi dal votare un “cessate il fuoco”, tutti fattori che hanno contribuito a rendere complici, quindi colpevoli, molti governi.”

Quali sono le modalità per entrare nei territori palestinesi dopo lo scoppio del conflitto recente?

“La situazione varia significativamente dal motivo per il quale si decide di visitare quei territori e dalla propria nazionalità. Ad esempio se si ha come obiettivo quello di visitare Tel Aviv, città israeliana considerata metà del turismo e delle discoteche, solitamente non si incontrano molti problemi. 

Tuttavia i problemi sorgono quando si vogliono esplorare i territori occupati. Ad esempio la striscia di Gaza è sottoposta a un rigoroso embargo militare, mentre all’aeroporto in Cisgiordania ai viaggiatori vengono poste numerose domande e si può rimanere fermi lì per un tempo considerevole.  Per questo noi palestinesi di seconda generazione usufruiamo del Valico della Giordania, dove è più facile ottenere un permesso di accesso a quei  territori. Per quanto riguarda gli italiani, di solito non sorgono molti problemi ma le preoccupazioni aumentano quando i visitatori sono palestinesi, giornalisti o membri dell’ONU. 

Inoltre la situazione in questi territori è stata addirittura paragonata all’apartheid, poichè i palestinesi sono trattati in modo diferente rispetto agli isrealiani. Sono frequentemente sottoposti a checkpoint, ovvero dei rigorosi controlli sui loro effetti personali, come il contenuto degli zaini, arrivando addirittura al punto di  doversi togliere anche i vestiti. Questi controlli così frequenti e approfonditi  e comportano spesso notevoli rallentamenti, infatti viaggi di un’ora arrivano a durare anche quattro  ore.”

In questi giorni di festività natalizie, sul web è stato massicciamente diffuso il sermone del reverendo Isaac Munther, che critica aspramente l’indifferenza dei  paesi occidentali verso la questione palestinese. Come è stato vissuto il Natale a Gaza?

“La storica usanza del costruire il presepe durante il periodo di Natale quest’anno non è stata rinnovata. A Betlemme sono stati annullati i festeggiamenti. Nell’unico presepe che è stato fatto, Cristo è stato posto in mezzo alle macerie: ciò ha un valore prettamente simbolico, ma se si pensa a ciò che è accaduto dal 7 ottobre in poi si può attribuire al presepe molto più di quanto si possa immaginare.

Se Gesù fosse nato nel giorno di Natale, probabilmente sarebbe nato sotto le macerie: una consapevolezza scioccante, che descrive realmente la vita in Palestina per moltissime persone che vivono in una situazione nella quale la guerra non mostra segnali di tregua.

Mentre il resto del mondo ha festeggiato il Natale e goduto della calma e della felicità che questa festa ha portato con sé, in Palestina, luogo nel quale dovrebbe essere maggiormente commemorata la nascita di Cristo, c’è stato silenzio, il silenzio di un bambino tra le macerie, il silenzio delle città distrutte e soprattutto il silenzio dei sopravvissuti.”

È possibile avere un dialogo produttivo tra le due parti, palestinese ed israeliana? 

“Sicuramente si tratta di un argomento divisivo ma non si deve dimenticare che ci sono profonde motivazioni storiche alla base delle tensioni. Si è già provato ad utilizzare la via del dialogo, come negli accordi di Oslo del ‘93. In quella occasione il primo ministro Rabin e il leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina Arafat si sono addirittura stretti la mano, gesto che si pensava simboleggiasse la risoluzione del conflitto. Tuttavia durante quell’incontro da una parte la Palestina ha riconosciuto lo stato di Israele, ma quest’ultimo ha riconosciuto solo la presenza dell’Autorità Nazionale Palestinese e non del territorio nazionale che reclamava.  Secondo i patti si sarebbe dovuto formare uno stato Palestinese nel ‘98, ma ciò non è avvenuto a causa della politica di espansione israeliana. Al giorno d’oggi ci sono 300 coloni e più di 800 coloni ebrei che risiedono in territori occupati che vanno oltre i confini stabiliti nel 1967, che corrispondevano alla sola Cisgiordania. Ciò rende impossibile riconoscere ufficialmente lo Stato Palestinese poiché non possiede integrità territoriale. Lo stesso Israele è l’unico Paese definito democratico che non ha dei confini ben precisi, che continuano a mutare.”

Un ringraziamento, Maya Issa, da parte di tutta la redazione. Il tuo contributo è stato prezioso per il nostro lavoro.

“E’ stato un piacere, grazie a voi”

da Redazione Cultura