Il legame tra i globicefali e il colonialismo
Invece che sulle coste delle isole Faroe, sembra di trovarsi scaraventati nelle viscere di un disegno fatto da un bambino arrabbiato col mondo, che colora il mare di rosso, un rosso sanguigno, violento per chi guarda e così irrealistico da far sembrare la realtà uno scherzo. Quello che avviene però non è uno sfogo infantile, bensì una tradizione autoctona della isole Faroe, un arcipelago situato nell’oceano Atlantico del nord: un paradiso per gli amanti della natura incontaminata che in primavera si sporca del sangue di centinaia di globicefali. La tradizione secolare è vissuta come una festa e coinvolge tutti gli abitanti, persino i bambini; decine di barche si coordinano per accerchiare un gruppo di balene, che viene spinto a riva per poi essere spiaggiate e uccise. Questa pratica conosciuta come Grindadrap è stata per secoli l’unico mezzo di sostentamento delle isole grazie alla carne ricavata, oltre al grasso (trasformato in combustibile) e la pelle, usata per corde e funi. Oggi però, le isole hanno raggiunto un livello di sviluppo e globalizzazione che permette loro scambi e comunicazioni efficaci, e le materie prime derivanti dalla caccia ancora oggi praticata senza nessuna tutela o regolamentazione, rimangono spesso inutilizzate, considerando anche l’attestata presenza di mercurio nella carne di questi cetacei. I globicefali, anche detti delfini balena, sono animali pacifici, intelligenti ma molto socievoli, ciò che fa di loro una facile preda. Vivono in gruppi, si nutrono di calamari e sono molto longevi, se non fosse per l’annuale mattanza che tinge il mare del Nord di rosso, ma che non sembra destare l’attenzione internazionale, compresa la Danimarca (che detiene la giurisdizione delle isole) che si dissocia ma fattualmente se ne lava le mani. Negli ultimi anni, la caccia è diventata più conosciuta, e di conseguenza anche rivendicata dalla popolazione a causa dell’intervento della Sea Shepherd Conservation Society, un movimento di conservazione dell’oceano a azione diretta internazionale, fondata da Paul Watson (anche cofondatore di Greenpeace) nel 1977. Sea Shepherd è una realtà composta da volontari provenienti da tutto il globo, di ogni età e non necessariamente qualificati, che si uniscono a missioni che hanno come obiettivo la tutela dell’ecosistema marino, tracciando le attività umane che la minacciano, come per esempio la Grindadrap. In questo caso si occupano di intralciare la caccia, facendo disperdere il gruppo di balene o rallentando la coordinazione delle barche. Il loro è un lavoro prezioso e pericoloso: infatti affrontano l’ostilità locale e l’indifferenza delle nazioni, non temono di sporcarsi le mani né tanto meno di crearsi nemici, si autofinanziano e perciò sono indipendenti da ogni possibile influenza politica o economica. Ciò che però colpisce è l’atteggiamento della popolazione locale, negli ultimi decenni sempre meno interessata alla caccia, che dal 2016, l’anno dell’intervento diretto di Sea Sheperd ha assunto una posizione conservatrice che rivendica il diritto alla celebrazione della tradizione del Grindadrap. Questa questione solleva una riflessione necessaria che riguarda il colonialismo e la globalizzazione. E’ giusto sopprimere l’apparato delle tradizioni di un popolo solo perché non coincide con il nostro sistema di valori occidentale? Quello che noi reputiamo moralmente accettabile si basa sulle nostre sovrastrutture socio culturali, diverse per ogni stato, emisfero o anche gruppo sociale, e voler applicare il nostro modello di giudizio, non privo di contraddizioni e incoerenze, è frutto della mentalità colonialista e prevaricatrice che ha contraddistinto l’occidente degli ultimi cinque secoli. Cosa fare quindi, per non cadere nella trappola del relativismo? Come conciliare il rispetto delle tradizioni locali con quello degli ecosistemi naturali? Sicuramente mettersi in discussione è un potente strumento di riflessione, che potrebbe portarci a una consapevolezza più elevata del rapporto uomo natura, perché in fondo scandalizzarsi per la caccia alle balene sembra quasi ironico se nel mentre ci accingiamo a mangiare la nostra tenera bistecca di bovino.